IV

LE COMMEDIE

L’attività teatrale rappresentò per l’Ariosto un particolare impegno artistico di lunga durata (dal 1507, quando egli compose in prosa la prima commedia, la Cassaria, fino alla Lena e al rifacimento in versi della Cassaria e dei Suppositi fra ’28 e ’31), preparato da un interesse per il teatro che ci riporta addirittura alla fanciullezza e all’adolescenza del poeta quando questi avrebbe composto precocemente una tragedia, Tisbe, come già dissi perduta, dedicandosi poi a volgarizzamenti e rimaneggiamenti di commedie di Plauto e Terenzio ed esercitandosi anche come attore[1] e «regista» e organizzatore di spettacoli nelle rappresentazioni teatrali della corte estense: lungo una fruttuosa direzione di attività teatrale che particolarmente a Ferrara aveva costituito, fino dagli ultimi decenni del Quattrocento, un aspetto importante del classicismo umanistico di quella città (divenuta allora la città piú «teatrale» di Italia) e una forma di espressione poetica e culturale fortemente legata alle esigenze di alto divertimento e di decoro estetico della corte e alla sua volontà di rapporto con il pubblico cittadino, su di un piano piú alto di quello delle feste e degli spettacoli sportivi, con cui gli Estensi rispondevano alla loro concezione di un principato mecenatesco, promotore di vita socievole, culturale ed artistica. In tal modo ancora una volta l’Ariosto si mostra tutt’altro che un letterato isolato ed astratto dalla realtà del suo tempo e della sua città, ed anzi la sua opera di artista parte da condizioni ed esigenze vive nella sua società e da una tendenza artistica del suo tempo per inserirvi e svolgervi la sua personale potenzialità poetica e la sua novità di temi e di toni poetici. Ed anzi proprio nelle sue Commedie egli ci dà modo di considerare piú facilmente il suo essenziale rapporto tradizione-novità, la sua rivoluzione poco appariscente, mossa dall’interno di una tendenza artistica in atto e condotta innanzi attraverso un tirocinio e un esercizio lungo ed assiduo. E nei confronti dello stesso capolavoro questo filone di esercizio e di espressione teatrale comica ci fa meglio comprendere nella genesi complessa del Furioso la preparazione, attraverso l’opera teatrale, di un gusto di intreccio, di scena, di recitazione, di dialogo, di impostazione dell’agire e sin del gestire dei personaggi che tante volte può cogliersi nel poema e che certo collaborò a rinsaldare, alla base del fluire fantastico del ritmo poetico di quello, la sua capacità di viva ed evidentissima rappresentazione di scene e situazioni[2].

Le Commedie ariostesche appartengono (ed anzi lo iniziano) a quel tipo di commedia «dotta», «erudita», di fronte alla quale già nel primo Cinquecento può contrapporsi la piú sanguigna spregiudicatezza realistica di un teatro come quello del Ruzante (per non dire della grandissima Mandragola), ma che sostanzialmente costituisce la prima e piú importante via di ricostruzione del teatro d’arte, dopo le esili e labili ecloghe drammatiche quattrocentesche o il pedantesco teatro latino umanistico o la fioritura delle sacre rappresentazioni tanto piú incerte fra edificazione pia e gusto vivo dell’azione teatrale. E del resto, poiché si accennava al Ruzante, non si dimentichi il fatto che questi conobbe a Ferrara ed apprezzò l’Ariosto uomo e autore di teatro e che nel suo passaggio all’ultima fase della sua produzione, dall’Anconitana in poi, contraddistinta da un nuovo equilibrio classicistico, può forse ipotizzarsi proprio la sua maggiore attenzione ai modelli della commedia ariostesca, che ebbero poi tanta efficacia e presenza sin nel teatro comico francese del Cinquecento.

Su quella via l’Ariosto si impegnava, attraverso una serie di commedie che sono insieme esperimenti progressivi di una «imitazione originale» cauta e concreta, appoggiata a modelli dei grandi comici latini, Plauto e Terenzio, variati prima con particolari nuovi di intreccio, di situazione, di battute comiche, di «scherzi», e poi sempre piú modificati e rinnovati nel prevalere di situazioni e personaggi che sempre piú esprimono sentimenti «moderni», si condizionano nell’atmosfera di una vita quotidiana e reale. Certo una via piú cauta e modesta di quella del Furioso e un esercizio che conduce ad esiti tanto piú modesti di quelli del capolavoro e meno liberi e sciolti di quelli delle Satire, ma pure una via sintomatica e un esercizio tutt’altro che indifferente o svalutabile sotto il semplice segno dell’esercitazione letteraria e dell’imitazione.

Di fronte a questa sin dalla prima commedia, la Cassaria, l’Ariosto si colloca in una posizione moderata, ma assolutamente non passiva, rifiutando l’estrema conclusione umanistica, scettica su ogni possibilità di novità quando la perfezione era stata una volta per tutte raggiunta dai classici antichi.

Infatti nel prologo in terzine alla prima Cassaria in prosa l’Ariosto si preoccuperà di valorizzare la sua ambizione di imitazione originale e di novità nella ripresa di schemi antichi:

Nova comedia v’appresento, piena

di vari giochi che né mai latine

né greche lingue recitarno in scena.

Parmi veder che la piú parte incline

a riprenderla, súbito c’ho detto

nova, senza ascoltarne mezzo o fine:

ché tale impresa non li par suggetto

de li moderni ingegni e solo estima

quel che li antiqui han detto esser perfetto.

(vv. 1-9)

E se egli accetta la superiorità delle opere antiche, non manca di ricordare, con il suo gusto piú libero e vivace, la perenne vitalità degli ingegni umani che son pur simili a quegli degli antichi:

È ver che né volgar prosa né rima

ha paragon con prose antique o versi,

né pari è l’eloquenzia a quella prima;

ma l’ingegni non son però diversi

da quel che fur, che ancor per quello Artista

fansi, per cui nel tempo indrieto férsi[3].

(vv. 10-15)

Da questa impostazione prudente deriva nella Cassaria (1507-1508) e nei Suppositi (1508-1509) in prosa (poi piú tardi furono rifatti in versi) una pratica di «imitazione originale», di «variazione» rispetto ai modelli latini soprattutto consistente in un insaporimento nuovo di battute comiche (e spesso apertamente scurrili), di aggiunta di figurine secondarie piú chiaramente realistiche, di particolari di cauta ripresa ambientale moderna, magari di eccessive accentuazioni caricaturali, sin nell’uso di gerghi «furbeschi». Con risorse presenti, ad esempio, in questa scena della Cassaria (III dell’atto III) in cui il mezzano Lucrano rivela parzialmente la sua personalità cinica bassa e decisa nel contrappunto di battute equivoche con il Trappola (altro personaggio equivoco di un mondo realistico-comico chiuso nella legge di un piccolo e lercio «utile») e con il proprio servo, Furba, che porta l’arricchimento del suo gergo «furbesco»:

Trappola: Dimmi, om da bene.

Lucrano: Tu dimostri[4] per certo di non esser molto pratico, che m’hai chiamato per un nome che né a me, né a mio padre né ad alcun del sangue mio fu mai piú detto.

Trappola: Perdonami che non t’avevo ben mirato; io mi emenderò. Dimmi, tristo om, d’origine pessima...; ma, per Dio, tu sei quel forse proprio ch’io cerco, o fratello o cugin suo o del suo parentado almeno.

Lucrano: Potrebbe essere: e chi cerchi tu?

Trappola: Un baro, un pergiuro, uno omicidiale[5].

Lucrano: Va’ piano, che sei per la via di trovarlo: come è il proprio nome?

Trappola: El nome... ha nome... or or l’avevo in bocca, non so che me n’abbi fatto.

Lucrano: O ingiottito[6], o sputato l’hai.

Trappola: Sputato l’ho forse, ingiottito no; che cibo di tanto fetore non potrei mandare nel stomaco senza vomitarlo poi súbito.

Lucrano: Coglilo adunque de la polvere.

Trappola: Ben tel saprò con tanti contrasegni dimostrare, che non serà bisogno che del proprio nome si cerchi: è bestemmiatore e bugiardo.

Lucrano: Queste son de le appartenenzie al mio essercizio[7].

Trappola: Ladro, falsamonete, tagliaborse.

Lucrano: È forse tristo guadagno saper giocare de terza[8]?

Trappola: È ruffiano.

Lucrano: La principal de l’arte mia.

Trappola: Reportatore[9], maldicente, seminatore di scandoli e di zizzanie.

Lucrano: Se noi fussimo in corte di Roma, si potrià dubitare di chi tu cercassi; ma in Metellino non puoi cercare se non di me, sí che ’l mio proprio nome ti vo’ ricordare anco: mi chiamo Lucrano[10].

[...]

Lucrano: Né se potrà perciò questo mercatante da me chiamare ingannato, che, prima che lo ricevessi in casa mia, non gli abbia fatto intendere che ero baro, giuntatore, ladro e pien d’ogni vizio. Se pur s’è voluto poi di me fidare, se n’abbia il danno. Ma ecco il Furba a tempo: si parte il legno questa notte, o quando?

Furba: Non ghiselasti col furbido in berta?

Lucrano: Trucca de bella al mazzo de la lissa, e cantagli se vòl calarsi de brunoro, c’ho il fior in pugno, e comperar vo’ il mazzo[11].

O si pensi, nei Suppositi, ai procedimenti assai piacevoli ed interessanti di certi dialoghi a battute brevissime e a scala contraria di domande e risposte, culminanti in uno scoppio d’ira, come nella scena V dell’atto IV tra Filogono, il vecchio padre siciliano ingannato dal figlio dissipato, e il suo sosia Sanese:

Sanese: Mi dimandi tu, gentiluomo?

Filogono: Vorrei intendere donde tu sia.

Sanese: Siciliano sono, al piacer tuo.

Filogono: Di che terra?

Sanese: Di Catania.

Filogono: Come è el tuo nome?

Sanese: Filogono.

Filogono: Che essercizio è il tuo?

Sanese: Mercatante.

Filogono: Che mercanzia hai tu menata qui?

Sanese: Nessuna: ci sono venuto per vedere un mio figliolo che studia in questa terra, e sono piú di dua anni che io non lo vidi.

Filogono: Chi è tuo figliolo?

Sanese: Erostrato.

Filogono: Erostrato è il tuo figliolo?

Sanese: Sí, è!

Filogono: E tu sei Filogono?

Sanese: Sí, sono.

Filogono: E mercatante in Catania?

Sanese: Che bisogna domandare? Non ti direi bugia.

Filogono: Anzi tu dici la bugia, e sei un baro et uno cattivissimo uomo[12].

Né manca nei Suppositi, rispetto alla Cassaria, già un tentativo di «modernizzare» la commedia svolgendola in Ferrara (laddove la Cassaria si svolgeva in Sibari) e di animarla piú realisticamente con macchiette e figurine di tipo locale, come «Caprino un monello pieno di impertinenza e di spirito che l’autore ha saputo cogliere per le vie di Ferrara e ritrarre con somma naturalezza», come disse, con qualche eccesso di generosità, il Carducci[13].

Ma proprio sulla via di un piú forte realismo e di un piú agevole ritmo di azione in cui l’Ariosto cercava di trasferire (seppure pesantemente) quel ritmo vitale che veniva intanto trovando la sua alta realizzazione poetica nel Furioso, la stessa forma della «imitazione originale» vien superando i suoi piú forti limiti nel Negromante (fra il 1509 e 1520), in cui campeggia un felice personaggio, il negromante Iachelino, che si avvale della sua presunta arte magica per truffe ed imbrogli canaglieschi, e intorno ad esso si snoda una vicenda comica, realistica, cui corrisponde un dialogare, nutrito di quel caldo senso del quotidiano e dell’umano che sono cosí fondamentali in tutta la poesia ariostesca e che trovano certo una maggiore possibilità di espressione poetica nell’adozione, da parte dell’Ariosto, dell’endecasillabo sdrucciolo (abbandonata cosí la prosa, che rimase strumento espressivo solo per scopi pratici e piú direttamente epistolari). Con lo sdrucciolo lo scrittore, mentre voleva riprendere una certa somiglianza con il verso della commedia classica, il trimetro giambico, tendeva a realizzare l’esigenza di una «difficile facilità» parlata, di un dialogato piú ritmico e pur non lontano dalle inflessioni, pause, continuazioni del discorso comune e quotidiano, ricco di possibilità comiche ed ambigue nel suo scorrere un po’ claudicante[14].

E proprio nel dialogo comico-realistico il Negromante già avvia (insieme ad un gusto, ad una capacità di migliore organicità, ad una disposizione di avventura piú libera dagli espedienti classici piú comuni) quella superiore conquista di un tono quotidiano e pur non banale, di una espressione comica della realtà piú comune e di una spregiudicata e lieta visione realistica che poi verrà meglio assicurata, approfondita, accordata con elementi coerenti di diagnosi della natura umana, nella Lena.

E se piú infelice, e perciò abbandonata dall’autore (per essere completata poi in due versioni diverse da parte del fratello Gabriele e del figlio Virginio), appare la commedia Gli studenti (o la Scolastica, iniziata nel 1518), la via del realismo e del ritmo comico trova il suo esito piú alto ed armonico appunto nella Lena, rappresentata per la prima volta nel 1528, e poi di nuovo rappresentata nel 1529 con l’aggiunta di due scene (la cosiddetta Lena caudata).

In questa ultima e maggiore commedia culmina l’attività teatrale dell’Ariosto, e se anche essa non è un vero capolavoro, e manca della luce piú intima e della continua alacrità fantastica della maggiore poesia ariostesca, vi è ben realizzata, con decoro e vivacità, una forma di azione e di dialogo che, a livello minore, e con minore impeto fantastico, pur riprospetta la fondamentale aspirazione ariostesca a rendere il sapore e il movimento della vita, meno insistendo sui procedimenti tradizionali delle agnizioni, degli equivoci, delle soluzioni ad effetto, e piú chiaramente puntando proprio su aspetti della realtà comune e quotidiana e sulla meccanica dei sentimenti umani, entro un piú fuso gusto di colore ambientale.

Sicché ciò che soprattutto si nota in questa commedia è la continuità di un’atmosfera realistica che fonde vicende, personaggi ed ambiente e permette un tipo di dialogo divenuto, rispetto a quello delle commedie precedenti, piú scorrevole e denso, piú «parlato» e ricco di riflessi vivi e coerenti della vita di ogni giorno, in una zona di sentimenti non eccezionali e di particolari comuni, ordinari, pur senza eccedere in puro e semplice colorito di tipo veristico.

Come ben si può vedere, estraendo antologicamente (e dunque con evidente perdita della continuità ed organicità essenziale su cui tanto piú si misura una resa teatrale) un dialogo; come il seguente, in un interno casalingo, fra la protagonista e la sua domestica (atto IV, scena IX):

Menica:

Lena, che vuoi?

Lena:

Piacciati, cara Menica,

di farmi un gran servigio, da dovertene

esser sempre tenuta.

Menica:

Che vuoi?

Lena:

Vuo’ mi tu

farlo?

Menica:

Io ’l farò, pur che far sia possibile.

Lena:

Va’, madre mia, se m’ami, fin a gli Angeli[15].

Menica:

Ora?

Lena:

Ora sí.

Menica:

Lasciami prima mettere

la cena al fuoco.

Lena:

Non, va’ pur, che mettere

io saprò senza te al fuoco una pentola.

Va’: come sei dritto la chiesa, piegati

tra l’orto de li Mosti e ’l monasterio;

e va’ su al dritto, fin che giungi, al volgerti

a man sinistra, alla contrada dicono

Mirasol, credo. Or va’.

Menica:

Che vi vuoi, domine

ch’io vada a far?

Lena:

Vedi cervello! Informati

quivi (credo sia il terzo uscio) dove abita

la moglie di Pasquin, ch’insegna a leggere

alle fanciulle: Dorotea si nomina.

Va’ quivi, e digli: – A te, Dorotea, mandami

la Lena a tôr li ferri suoi da volgere

la seta sopra li rocchetti –; e pregala

che me li mandi, perché mi bisognano.

Or va’, Menica cara: donar voglioti

poi tanta tela, che facci una cuffia.

Menica:

La carne è nel catin lavata e in ordine,

non resta se non porla ne la pentola[16].

(vv. 1149-1173)

Né, d’altra parte, la felicità e l’interesse della commedia si esauriscono nella creazione di questa atmosfera generale. Perché in essa si muove certamente lo svolgimento di un caso di vita, sintomatico per l’acutezza e spregiudicatezza ariostesca entro zone di corruzione e di bassezza morale indagate e rappresentate senza drammaticità e senza sdegni impetuosi, ma non senza la viva capacità di farne risultare la ambigua ed amara comicità.

Sfuggono in questa prospettiva (tanto parziale rispetto a quella del poema) piú evanescenti, poco incisivi i personaggi della bontà e della gentilezza (la fanciulla e il suo giovane innamorato), mentre risultano e si rivelano soprattutto nell’efficacia del parlato i personaggi di un mondo «effettuale» mosso da interessi e da istinti bassi e non perciò meno veri e interessanti come Fazio, il vecchio tutore della fanciulla, con la sua passione senile e bassa, e piú ancora la figura lucida e risentita della protagonista, la Lena, meretrice e mezzana, e quella del marito Pacifico, sfruttatore cinico, e cinicamente flemmatico, della immorale attività della Lena.

Specie intorno ai contrasti fra Lena e Pacifico, al loro legame di corruzione, al risentimento della donna verso il marito che l’ha spinta e la costringe alla sua vita abbietta, la commedia raggiunge alcuni dei suoi momenti piú intensi, comici (perché l’Ariosto teatrale evita l’approdo al dramma) – ma insieme sottilmente amari e lucidamente evidenti e concreti.

Si pensi in proposito al dialogo in cui Pacifico ha la sfacciataggine – in un momento in cui l’azione della moglie sembra risolversi in un disastro – di rimproverare a quella la sua vita disonesta e poi, a poco a poco, di fronte alle dure accuse della Lena, si ripara con la sua flemma caratteristica, in una difesa cinica che prende il tono comico di un autocontrollo e di una saggezza calma e dignitosa (scena XI dell’atto V).

E il comico, come dicevo, non sfocia mai nel dramma e l’azione anzi si conclude lietamente con le nozze fra la fanciulla e l’innamorato e la ripresa di rapporti fra il vecchio Fazio e la Lena, dei cui vantaggi economici riprenderà a fruire tranquillamente Pacifico.

Ma il mondo comico ariostesco si è fatto piú complesso e originale, si è venuto progressivamente staccando dalla piú facile ripresa dei modelli classici, si è creato un linguaggio piú parlato e moderno, e cosí la Lena conclude, con un risultato assai interessante, una lunga esperienza artistica che contribuisce ad articolare e ad arricchire la complessa realtà dell’opera ariostesca, e insieme ci stimola a meglio capire, come ho già detto, nello stesso capolavoro del Furioso la presenza di una dimensione comica e teatrale, il gusto della scena e del dialogo sin dell’impostazione di recitazione e di mimica di certi suoi personaggi in certi episodi e situazioni.


1 Sin dagli anni universitari l’Ariosto fece parte di una compagnia teatrale di giovani aristocratici che, nel 1494, si esibí anche a Milano, alla corte di Ludovico il Moro, e che recitava testi classici nella versione del Boiardo.

2 Si pensi almeno, per certe impostazioni di personaggi prima della loro recitazione di lamenti e perorazioni, al modo in cui è introdotto, nel canto X, il lamento di Olimpia che, abbandonata da Bireno, corre al lido marino e sale, come su di un ideale podio, sulla roccia «curva e pendente» sul mare. Il particolare non mancava nell’episodio-base di Arianna nelle Heroides ovidiane (cfr. Heroides, X, vv. 25-26) e nell’episodio ovidiano di Ino nelle Metamorfosi (IV, vv. 525-528), ma l’Ariosto lo evidenzia in maniera tanto piú chiaramente rappresentativa e altamente scenica.

3 Si cita dall’edizione delle Commedie, a cura di A. Casella, G. Ronchi, E. Varasi, in Tutte le opere, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1974, vol. IV, p. 4.

4 dimostri: mostri.

5 omicidiale: assassino.

6 ingiottito: inghiottito.

7 appartenenzie al mio essercizio: qualità del mio mestiere.

8 giocare de terza: imbrogliare.

9 Reportatore: spia.

10 In Commedie, ed. cit., pp. 24-25.

11 Ivi, p. 32 (queste ultime battute fanno parte della scena VII del III atto).

12 Ivi, p. 236.

13 G. Carducci, L’Ariosto e le sue prime commedie, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, p. 47.

14 Già un critico cinquecentesco, G.B. Pigna (I romanzi, Venezia, Valgrisi, 1545, p. 63), lodava l’Ariosto per l’adozione dello sdrucciolo in commedie «per la natura di che egli fa acquisto nel pigliare una sillaba di piú, che giuso cadere il fa, il che lo fa con un suon languido correre».

15 a gli Angeli: alla chiesa di S. Maria degli Angeli, in Ferrara, dove si svolge l’azione.

16 Commedie, ed. cit., pp. 601-602.